GIUSEPPE CULICCHIA, “IL TEMPO DI VIVERE CON TE”.

By | 8 Febbraio 2021

 

La mattina del 15 dicembre 1976 la polizia irrompe in un appartamento di Sesto San Giovanni per arrestare un brigatista rosso. Il brigatista, nel tentativo di sfuggire all’arresto, fa fuoco sui due poliziotti, uccidendoli, per venire a sua volta freddato poco dopo, durante il suo tentativo di fuga attraverso la finestra.

Il brigatista si chiamava Walter Alasia. Ed era il cugino dello scrittore Giuseppe Culicchia.

Ed è proprio per raccontare la sua storia che Culicchia pubblica oggi, a quarant’anni di distanza, il suo ultimo lavoro, “Il tempo di vivere con te”.

All’epoca dei fatti lo scrittore era un bambino di undici anni, un bambino “innamorato pazzo” di quel cugino di nove anni più grande con cui trascorreva ogni anno le vacanze estive nella casa dei nonni, a Nole, un paesino della provincia di Torino. Quel cugino alto, con gli occhi azzurri come il mare e i capelli lunghi che portava sempre l’allegria e il buonumore in famiglia, il compagno di giochi che non si stancava mai di soddisfare le sue richieste: “Walter giochiamo a pallone? Walter giochiamo a soldatini? Walter facciamo che io sono Tex e tu Kit Carson? Walter andiamo per i prati?”, in un fuoco di fila di richieste una dietro l ‘altra, senza sosta, senza virgole o segni di interpunzione. E Walter sempre lì, pronto, allegro, generoso ed entusiasta. Walter, che non si rifiuta mai di aiutare, anche se è in vacanza, Walter che sgobba, che dà il bianco alle pareti della casa degli zii, Walter, che vive a Sesto San Giovanni, la rossa Sesto, all’epoca denominata anche “la Stalingrado italiana”,  Walter che vede la madre logorarsi in fabbrica, Walter che sogna la rivoluzione, Walter che conosce Renato Curcio. Walter, che prende la scellerata decisione di arruolarsi nelle Brigate Rosse.

Walter che uccide ed è ucciso a sua volta.

Ed è qui che il ritratto familiare si intreccia con lo scenario politico dell’epoca, per formare un quadro dove si mescolano affetti familiari con spezzoni di quella che era la vita durante quegli anni, anni in cui il diffondersi di una ideologia estrema e distorta ha portato a uno dei più periodi più bui e tormentati del nostro dopoguerra: gli anni di piombo. Sono gli anni delle decine di morti ammazzati, delle rivolte, dei disordini, della nascita dei gruppi eversivi, sia di destra che di sinistra. Anni di lotte di classe, di sangue, che prendono le mosse dalla strage di Piazza Fontana, dalla morte dell’anarchico Pinelli, dall’omicidio del commissario Calabresi. E dalla nascita di uno dei gruppi più fondamentalisti e sanguinosi che la recente storia italiana ricordi: le brigate rosse.

E proprio in quel gruppo il giovane Walter entra a far parte, nel più radicale gruppo eversivo di quegli anni, un gruppo dove farà la conoscenza di Renato Curcio, che gli fornirà l’arma che impugnerà quella mattina di dicembre di tanti anni fa.

La storia che ci offre Culicchia è una storia amara e tenera nello stesso tempo: ben lontano dal celebrare un’apologia di Alasia, lo scrittore racconta brandelli di vita del cugino quando questi non era ancora “il brigatista”, “il mostro”, ma un ragazzo come gli altri, generoso e sensibile, nel cui animo però l’ideologia della lotta armata rivoluzionaria si è pian piano instaurata saldamente, riempiendolo di ideali rivoluzionari da perseguire a ogni costo, anche al prezzo di sacrificare delle vite umane. Nel caso specifico, dei due poliziotti che stavano compiendo il loro dovere come ogni giorno, il maresciallo Sergio Bazzega e il vicequestore Vittorio Padovani, che la mattina del 15 dicembre furono freddati da Walter nel suo tentativo di fuga; due mariti, due padri morti durante l’espletamento del loro dovere in una fredda mattina di dicembre, e che si sono trovati davanti un ragazzo di vent’anni con una pistola in pugno. Due uomini che Culicchia ricorda spesso e con struggimento, nelle pagine del libro, uomini che hanno offerto la loro vita in sacrificio per compiere sempre con coscienza  il loro dovere, pur conoscendo perfettamente la pericolosità del loro quotidiano: “Pensano alle loro mogli – scrive Culicchia- . Pensano ai loro figli. Pensano alla sfortuna che li ha voluti di turno per quell’operazione proprio quel giorno. Pensano che vorrebbero essere altrove e non lì, nel buio e nel gelo di quell’alba di dicembre (…). Pensano che rischiare la vita in quel modo per quattro soldi a fine mese non è giusto”. Invece, la vita l’hanno persa, e oggi non rimane che il tempo del dolore.

Ed è proprio per il rispetto che si deve a queste altre due vittime di quel periodo disperato che l’autore, nonostante l’immenso amore per il suo antico compagno di giochi, non fa del libro una sorta di celebrazione postuma del giovane brigatista o un ritratto annacquato e sdolcinato per riabilitarne in qualche modo la memoria, ma osserva e cataloga i fatti mantenendo, o cercando di mantenere per quanto possibile, obiettività ed equidistanza, senza rinunciare però a far sempre trasparire il grande amore che lo legava, e lo lega, all’amato cugino. Un amore e un volto che Culicchia cerca di ricordare e di far rivivere almeno nello spazio del racconto, andando indietro negli anni fino a quando loro due, assieme, tanto tempo prima, correvano felici per i prati del canavese, o cantavano a squarciagola Battisti divorandosi le paste di meliga o giocavano agli indiani davanti alla grande quercia. Una quercia che oggi non esiste più, come non esiste più quel tempo e quell’innocenza. Tutto spazzato via. L’infanzia, la gioventù, i grandi ideali, la bontà, tutto finito nel delirio della scelta della lotta armata, tutto finito quella fredda mattina di dicembre. Rimane solo il ricordo, un ricordo struggente e doloroso che dura quanto il tempo di qualche pagina.

E’ solo più questo, ora, “il tempo di vivere con te”.