JAMIE OLIVER DICHIARA FALLIMENTO

Jamie Oliver ha fatto crack.

Il popolare chef britannico, a capo di un vero impero gastrononomico che comprende(va) 23 ristoranti della catena Jamie’s Italian e due ristoranti londinesi, Fifteen e Berbcoa, ha ufficialmente reso noto il proprio fallimento, e da oggi le sue attività ristorative sono in regime di amministrazione controllata. Incerto anche il futuro dei 1300 dipendenti.

“Sono devastato che i nostri amatissimi ristoranti nel Regno Unito siano in amministrazione controllata. Sono profondamente amareggiato di questo epilogo, e vorrei ringraziare tutto le persone che hanno messo i loro cuori e le loro anime in questo business durante questi anni”, scrive Oliver.

Un finale davvero tragico, per sfuggire al quale non è bastato il piano di di ristruttrazione del 2018 che aveva già comportato la chiusura di 12 ristoranti, il licenziamento di 6000 (seimila!) dipendenti e la chiusura del bilancio con una perdita di 101 milioni di sterline. Lo scorso anno, infatti, lo chef aveva detto, in una intervista al Financial Times,che la sua catena di ristoranti era stata “a due ore dalla bancarotta” e che era dovuto intervenire con una massiccia  iniezione di capitale fresco pari a 13 milioni di sterline (circa 14 milioni e mezzo di euro). All’epoca, Oliver aveva dichiarato di “non aver capito esattamente” perché la sua catena di cibo italiano si fosse così pericolosamente avvicinata alla bancarotta, mentre in seguito, schiaritosi le idee, aveva candidamente dichiarato che “avevamo semplicmente finito i soldi, e non ce lo aspettavamo”. In reatà, lo chef 43enne aveva più tardi imputato il dissesto a una vera “tempesta” di concause, vale a dire al caro affitti, alla Brexit, ai costi delle materie prime e anche alla concorrenza delle app che portano il cibo a domicilio.

Oliver era approdato al successo con il programma TV  “The naked chef”, e  nel tempo ha costruito un colosso da circa 170 milioni di euro, come riporta il New York Times, parte dei quali sfumati proprio nel settore della ristorazione.

Ma se i ristoranti non van bene, il buon Jamie non si trova comunque sul lastrico:  Oliver può infatti contare, per tirare avanti, sui milioni di proventi provenienti dai libri, royalty, licenze e varie altre attività, ma, come afferma egli stesso “non ho mai ricavato soldi dal settore della ristorazione”.

Chi se  la passa davvero male, invece, sono i suoi dipendenti, per i quali l’avvenire non si prospetta certo roseo: ieri, infatti, i dipedenti del ristorante di Birmingham,  finito il turno di lavoro, sono tornati a casa in lacrime, e hanno riferito al Daily Mail di aver ricevuto  una email in cui venivano informati del dissesto solo 30 minuti prima che la società annunnciasse ufficiamenete il fallimento, cosa che ovviamente non è stata presa troppo bene dallo staff del locale: “sono arrabbiato perchè non sarà Jamie quello che dovrà cercarsi un nuovo lavoro e si dovrà arrabattare per tirare avanti, ma saranno i poveri cristi come noi che abbiamo lavorato per lui”, dice un dipendente.

Intanto lo chef, dal canto suo, ha avuto parole di comprensione per  staff e fornitori, dicendo che “capisco quanto tutto ciò sia difficile per tutti coloro che ne sono toccati”, e ha anche ringraziato i suoi clienti: “servirvi è stato un onore”,  ha postato Oliver,  che, nostatante tutto dichiara che i suoi locali di cibo informale sono comunque pronti per “un nuovo ritorno”.

E chissà, magari evitare di mettere mettere chorizo, aglio e yogurt nella carbonara o stravolgere piatti tipici di mezza Europa con variazioni strampalate  potrebbe portare a una maggiore fortuna per i preannunciati nuovi locali firmati dal cuoco inglese.

Crediti: Il Sole 24 Ore, Daily Mail

IL DECALOGO DI MICHELE FERRERO: LA CHIAVE DEL SUCCESSO STA NEL RISPETTO (no, non nella Nutella)

Il Gruppo Ferrero non è solamente il nostro pusher di Nutella abituale, ma è oggi è un colosso a livello mondiale, con milioni di fatturato e migliaia di dipendenti sparsi in tutto il mondo.

Dalla prima piccola bottega aperta nel 1946 da Pietro Ferrero ad Alba, oggi la Ferrero è una multinazionale che impiega oltre 20.000 dipendenti in tutti gli stabilimenti in giro per il mondo, e che prosegue una politica di acquisizioni che ha visto, negli ultimi anni, inglobare molte delle maggiori realtà dolciarie internazionali, come l’americana Fannie May nel 2017, le attività dolciarie di Nestlè nel 2018 per finire ai giorni nostri, in cui il gruppo ha annunciato l’acquisizione del comparto biscotti e gelati della Kellog Company per 1,3 miliardi di dollari.

Ma tutto questo successo non è dovuto al caso, e si poggia su basi solide, concrete, che Michele Ferrero, mancato nel 2015 – il padre dell’attuale Presidente del gruppo, Giovanni, e figlio del fondatore, Pietro – ha messo a punto più di 40 anni fa. La base, infatti, del successo inscalfibile e della continuità nel tempo di questa grande impresa non sta non solo nella qualità dei prodotti, nei processi di produzione o in una indiscutibile abilità gestionale (e no, non sta nemmeno in quella magia di prodotto chiamata Nutella, oggi sempre più attaccata da più fronti ma che sempre rimane inscalfibile nei nostri cuori e nei nostri gusti), ma anche e soprattutto nel trattamento della prima tra le risorse con cui una azienda si trova a doversi rapportare: il personale. O meglio, le persone.

Prima della qualità delle materie prime, prima della tecnologia sempre all’avanguardia, prima delle tecniche di marketing e delle varie politiche aziendali, la Ferrero ha sempre messo davanti le persone, gli operai, coloro che lavorano all’interno dell’azienda, trattandoli non sempliceente come “fornitori di lavoro”  ma come persone di cui aver cura, importanti, quasi di famiglia; non una massa indistinta di lavoratori senza nessuna identità ma persone vicine, a cui porre attenzione e da fare sentire partecipi.

Per questo il decalogo per i manager dell’azienda – coloro che hanno a che fare tutti i giorni con i lavoratori – messo a punto da Michele Ferrero quaranta anni fa è probabilmente quello che sta alla base del successo e della solidità dell’azienda, perché sposta il fucus dal prodotto, e dal reddito, alle persone, alla gente che lavora.

Una politica comune a diversi tra i grandi capitani d’industria del passato (tra cui non possiamo non ricordare  l’Avvocato, Gianni Agnelli, che offrì alla propria manodopera tutta una serie di benefit e agevolazioni – ad esempio le borse di studio per i figli dei dipendenti, gli accessi agevolati a impianti sportivi, le colonie estive e  i regali di fine anno per i figli dei dipendenti, senza dimenticare il classico orologio per i 40 anni in azienda conservato gelosamente dagli “anziani Fiat” – tesi ad avvicinare la proprietà alle maestranze) e che è alla base di una azienda che oggi diremmo “etica”, mirata non solo al risultato ma anche alle condizioni di chi presta la sua opera al suo interno.

Per questo le “massime da seguire nei contatti con il personale” (questo il nome con cui è conosciuto il decalogo all’interno dell’azienda) stilato da Michele Ferrero agli inizi dell’avventura è ancora oggi attualissimo.  Perchè nessuna azienda può prescindere da coloro che vi lavorano e che contribuiscono ogni giorno al successo del prodotto. E per questo il primo consiglio con cui si apre il decalogo per i manger è di estrema imporatanza: “Quando parli con un individuo ricorda: anche lui è importante”.

Ecco: Ferrero, con il suo decalogo, dà valore a un fattore che è il primo e il più importante in una azienda come in ogni altra attività: il fattore umano.

Ed ecco sotto riportato il decalogo (in realtà composto di 17 punti) di Michele Ferrero, così come riportato dalla Gazzetta di Alba e da Forbes: non vi troverete massime mirabolanti, postulati di etica o tecniche sofisticate di gestione del personale: si tratta solo di semplici considerazioni, di consigli che hanno come unica base un prinicipio che dovrebbe essere tanto ovvio e naturale quanto oggi, invece, è disatteso: il rispetto.

LE LINEE GUIDA DI MICHELE FERRERO PER IL TRATTAMENTO DEI LAVORATORI IN AZIENDA

1-Nei vostri contatti mettete i vostri collaboratori a loro agio:
-Dedicate loro il tempo necessario e non le “briciole”
-Preoccupatevi di ascoltare ciò che hanno da dirvi
-Non date loro l’impressione che siate sulle spine
-Non fateli mai sentire “piccoli”
-La sedia più comoda del vostro ufficio sia destinata a loro

2- Prendete decisioni chiare e fatevi aiutare dai vostri collaboratori, essi crederanno nelle scelte a cui hanno concorso

3- Rendete partecipi i collaboratori dei cambiamenti e discutetene prima della loro attuazione con gli interessati

4- Comunicate gli apprezzamenti favorevoli ai lavoratori, quelli sfavorevoli comunicateli solo quando necessario, in quest’ultimo caso non limitatevi a una critica, ma indicate ciò che dovrà essere fatto nell’avvenire perché serva a imparare

5- I vostri interventi siano sempre tempestivi: “Troppo tardi” è pericoloso quanto “Troppo presto”

6- Agite sulle cause più che sul comportamento

7- Considerate i problemi nel loro aspetto generale e non perdetevi nei dettagli, lasciate ai dipendenti un certo margine di tolleranza

8- Siate sempre umani

9- Non chiedete cose impossibili

10- Ammettete serenamente i vostri errori, vi aiuterà a non ripeterli.

11- Preoccupatevi di quello che pensano di voi i vostri collaboratori.

12- Non pretendete di essere tutto per i vostri collaboratori, in questo caso finireste per essere niente.

13- Diffidate di quelli che vi adulano, a lungo andare sono più controproducenti di quelli che vi contraddicono.

14- Date sempre quanto dovete e ricordate che spesso non è questione di quanto, ma di come e di quando.

15- Non prendete mai decisioni sotto l’influsso dell’ira, della premura, della delusione, della preoccupazione, ma demandatele a quando il vostro giudizio potrà essere più sereno

16- Ricordate che un buon capo può far sentire un gigante un uomo normale, ma un capo cattivo può trasformare un gigante in un nano

17- Se non credete in questi principi, rinunciate ad essere capi

Crediti: Forbes, Gazzetta di Alba

I BROCCOLI BLOCCANO I TUMORI: SCOPERTA LA MOLECOLA KILLER

I broccoli bloccano lo sviluppo dei tumori.
Questo è quanto emerge da una nuova ricerca pubblicata sulla rivista scientifica “Science”, e condotta da una équipe del Cancer Research Institute facente parte del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston guidata dall’oncologo Pier Paolo Pandolfi.
Secondo i risultati della ricerca, nei broccoli è presente una molecola capace di contrastare l’enzima responsabile della crescita di molti tipi di tumori, tra cui quelli al seno e alla prostata.
La molecola killer, l’indolo-3-carbinolo (I3C) –  presente non solo nei broccoli ma in molti vegetali della famiglia delle crucifere, come cavoli, cavolfiori o cavoletti di Bruxelles – , ha dato “risultati sorprendenti”:  sugli animali testati, infatti, è stata rilevata una significativa riduzione dei tumori sia come dimensioni che come peso, non avendo inoltre evidenziato alcun tipo di tossicità o effetti collaterali negativi.
Attenzione, però: non vi basterà mangiare un piatto di pasta e broccoli una volta al giorno per godere dell’effetto anti-tumorale: perché la molecola sia in grado di inibire la crescita dei tumori, di broccoli ne dovrete mangiare circa sette chili al giorno. E per quanto siano buone le orecchiette con i broccoli, l’impresa si rivela davvero ardua. Non per nulla si sta pensando di mettere a punto un nuovo tipo di molecola, potenziata rispetto a quella attualmente già in commercio sotto forma di integratore alimentare, per cercare di sfruttare i benefici di questa nuova e importante scoperta.
E in fondo, anche questa è una buona notizia: sette chili di broccoli al giorno sono una dose in grado di scoraggiare anche il vegano più convinto.

Crediti: Repubblica

PER IL NEW YORK TIMES LO SPRITZ NON E’ BUONO

“Lo Spritz non è buono”.

Non usa mezzi termini il New York Times per descrivere l’aperitivo più gettonato degli ultimi anni, quello che scorre a fiumi nelle calde serate estive tra gruppi di Millennials e non, quello che ormai è diventato uno dei cocktail più consumati a livello mondiale, grazie anche a una poderosa campagna di marketing che ne ha decretato in parte l’attuale, enorme successo.

“Il dolce aperitivo – sostiene la cronista del New York Times, Rebekah Peppler, riportando le parole di Katie Parla, una nota autrice di libri di cucina statunitense – è in genere preparato con Prosecco di  pessima qualità, acqua di soda e una smisurata fettona di arancia, il che lo fa risultare come un semplice Capri Sun (marchio americano di succhi di frutta) da bere dopo una partitella di calcio in un giorno caldo. Non un granchè” (e qui sarebbe però opportuno far notare che se comunque qualcuno utilizza ingredienti di bassa qualità non è colpa dell’aperitivo in se stesso ma di chi lo prepara in modo scellearto, ma lasciamo perdere).

Come se non bastasse, anche se il Prosecco utilizzato fosse il migliore, le cose non cambierebbero un granchè, perchè l’autrice americana se la prende pure con l’altro ingrediente essenziale dello Spritiz, l’Aperol, reo di regalare alla bevanda un sapore troppo zuccherino: “Nonostante contenga ingredienti come arance amare e rabarbaro, che mascherano il gusto troppo dolce, l’effetto finale è quello di uno sciroppo”, continua imperterrita l’autrice.

E per finire in bellezza, miss Parla se la prende pure con i camerieri, per infangare il buon  nome dello Spritz: “se l’Aperol Spritz non viene servito immediatamente, il ghiaccio si scioglie, annacquando il tutto”.

Insomma, non ne va bene una, per il New York Times, del nostro aperitivo nazionale.  Ma se possiamo essere d’accordo su uno degli appunti riportati, ovvero della pessima qualità del Prosecco che spesso in bar e baretti viene utilizzato per soddisfare le fauci assetate di orde di ragazzi, non per questo ci sentiamo di poter degradare uno degli aperitivi più apprezzati e popolari a semplice operazione di marketing ben riuscita. Lo Spritz, infatti, vanta radici gloriose e lontane: furono i soldati austriaci di stanza in Veneto alla fine dell’800 a inventare il “progenitorie” dello Spritz, a diluire il loro bicchiere di vino spruzzandoci (“spritz”, in tedesco) della semplice acqua naturale. L’acquadivenne gasata nei primi anni ’20 e negli anni ’30 venne aggiunto il liquore. Il Prosecco entrò in scena solo recentemente,  negli anni ’90, e ai nostri giorni, vale a dire dal 2003, la Campari, detentrice del marchio Aperol, diede inizio a una massiccia campagna di marketing a livello mondiale per la promozione dello Spritz con Aperol (infatti è diffusa anche la versione con Campari, più dolce, per quanto meno praticata), anche utilizzando corsi per bartender professionisti e con show vari nei bar e nei ritrovi di maggior interesse, con fiumi di Spritz generosamente offerti. Grazie anche a questa promozione, oggi lo Spritz è uno dei cocktail più diffusi all  over the world, e sinceramente, derubricare il suo successo a mera campagna di marketing ben riuscita appare ingeneroso: se tante persone nel mondo bevono Sptriz durante le loro serate con gli amici, non può essere imputato solo a pubblicità o promozione, ma anche a una ricetta vincente, gradevole, in altre parole azzeccata. Attualmente, la ricetta codificata dall’associazione bartender è data da tre parti di Prosecco, due di Aperol e una di soda, il tutto servito con una fetta di arancia, ed è in questa forma che lo Spritz ha letteralmente fatto terra bruciata attorno a sé negli ultimi anni, spodestando di netto, per popolarità e diffusione, cocktail ben più noti e blasonati; per l’umile Spritz, che è anche uno dei cocktail più semplici da preparare (basta un semplice bicchiere e una fetta d’arancia, senza tante acrobazie o attrezzature da bartender professionisti) è una vera vittoria a mani basse,  e dove passa lui non ce n’è per nessuno, nemmeno per Negroni, Daiquiri o Margaritas. Non male per un cocktail che “non è buono”…

Crediti: New York Times, Getty images

BURGER KING METTERA’ IN VENDITA UN HAMBURGER DI “CARNE VEGANA”.

Finalmente anche vegani e vegetariani potranno entrare in un Burger King e mangiarsi in santa pace il loro bell’hamburger, senza patemi d’animo e senza il devastatne pensiero di essere la causa del genocidio di teneri vitellini per un motivo così bieco come il proprio sostentamento.

Burger King, una delle più diffuse catene di hamburgherie a livello mondiale, ha infatti stretto proprio in questi giorni un accordo con Impossible Food, una delle maggiori aziende produttrici di “carne vegana”.  Burger King ha cioè fiutato l’aria che tira, verificato il generale innamoramento e stordimento per tutto ciò che è “veg” e ha scommesso su un segmento di domanda, quello di carne “vegana” appunto, che potrebbe tra non molto tempo diventare un rilevantissimo settore mainstream. Non per nulla, dopo una prova che ha avuto un prevedibile successo a Saint Louis, nel Missouri, Burger king ha annunciato che immetterà un hamburger a base di “fake meat” in più di 7000 hamburgherie sparse negli USA, e ovviamente c’è da star certi che poco dopo lo stesso farà con gli altri negozi sparsi ovunque nel mondo.

Un vero boom, quello della carne vegana, tanto che la società ha raggiunto il limite della sua capacità produttiva, e ha dovuto informare i propri clienti di non poter essere in grado, almeno fino a metà maggio, di soddisfare la domanda, scatenando una vera corsa all’approvvigionamento da parte di diversi locali e caffè vegani, che hanno letteralmente dato fondo alle scorte dell’azienda. In Asia, le vendite di Impossible Foods sono addirittura triplicate, e solo nel giro di questi ulitmi mesi.

La società sta ora lavorando per aumentare la capacità produttiva e soddisfare la nuova domanda, e ha anche annunciato che aumenterà il numero di dipendenti nel suo stabilimento californiano di Oakland, portandolo a tre linee di produzione.

D’altronde, anche Beyond Meat, l’altro colosso nella produzione di carne vegetale, ha raggiunto il valore sitmato di un miliardo e mezzo di dollari, mentre entro il 2025 il valore del mercato dei prodotti sostituivi della carne dovrebbe arrivare a 7,5 miliardi; anche Nestlè è entrata nel settore con i suoi nuovi Incredible e Avesome burger.

Un successo dovuto non solo a questioni puramente etiche, ma anche alla percezione di un cibo “trendy e cool”, in pratica un nuovo status symbol alla portata di tutti: non per nulla da numerose ricerche di mercato è stato rilevato come i nuovi interessi delle fasce di popolazione più agiate non siano più diretti verso i classici beni di lusso ma che si rivolgano invece a un cibo sano, bio e rispettoso dell’ambiente, meglio ancora se alla moda.

E intato i produttori di carne vegana gongolano.

Fonti: Eater

SPAGHETTI ALLA CARBONARA

Della carbonara, ormai, si è detto tutto.
Si sa tutto, si conosce ogni suo segreto, ha scavalcato i confini nazionali per diventare anche all’estero, specialmente negli USA, uno dei piatti più graditi ed apprezzati. La carbonare è ormai diventato un “trend topic”, tanto che è nato addirittura il “carbonara day”, che spopola sul web, un giorno tutto dedicato all’ormai celebre pasta con uova e pecorino.
Dei lei si parla, si dibatte, si discetta in ogni dove: chi usa il guanciale – quello che prevederebbe la “ricetta originale” – , chi invece, i miscredenti – alla cui categoria appartengo anche io – preferisce lordare la purezza della ricetta autentica utilizzando della vile pancetta, per giunta pure affumicata; chi mette solo pecorino, sempre secondo “ricetta originale”, chi invece osa “tagliare” il sapido formaggio di pecora con del più neutro Grana o Parmigiano; chi mette solo tuorli e chi invece li inquina mettendo anche gli albumi, chi la ritiene inventata da non meglio precisati “carbonai” laziali, che la avrebbero ben condita con pepe nero -da qui il nome- e chi invece, molto più prosaicamente, la fa derivare della “razione K” dei soldati alleati in Italia nel secondo dopoguerra, razione che prevedeva appunto uova in polvere e pancetta, che qualcuno pensò poi un bel giorno di unire a un bel piatto di pasta, dando poi origine al piatto che è arrivato sino a noi; versione a cui mi sento di poter aderire in toto, e non me ne vogliano i fantomatici “carbonai”.
E quindi, in questo mare di notizie di carbonare vere o finte, di ricette “originali”, di ingredienti, di discorsi triti e ritriti, una voce diversa ancora la si può sentire. E’ quella dell’indimenticato Ugo Tognazzi, protagonista di tante pellicole che hanno segnato la nostra storia cinematografica del secolo scorso, come “Amici miei” e la sua “supercazzola con scappamento a destra”, le famose “zingarate” e anche pellicole dal retrogusto amaro come “La grande abbuffata”, congrega di amici che decide, per fuggire dalla delusione del mondo circostante, di morire mangiando, uno a uno, tra banchetti luculliani gustati con scrupolosa diligenza fino all’inevitabile fine. Ma Tognazzi non era solo un grande attore, ma anche un grande gaudente, che scrisse un gradevolissimo libro di “ricette”, tra cui molte appunto dal film La grande abbuffata ma anche molte che appartengono al suo vissuto, dal titolo “L’abbuffone”. E tra queste, non manca la carbonara. O meglio “My carbonarua”, che preparò lui stesso per una cena tra amici e anche clienti, in totale 350, che ebbe luogo in un hotel di New York nel quale gli fu chiesto di esibirsi nella preparazione di un tipico piatto italiano, essendo notissima la sua fama, oltre che di attore superlativo, anche di cuoco eccellente.
E queste sono le sue parole. Le uniche non ancora sentite in un mare di carbonare trite e ritrite. E sì, nella ricetta di Tognazzi – che aveva già ben capito da dove arriva la “vera carbonara”, sono previste anche panna e cognac; nella mia invece, che riporto in calce, ci sono solo gli ingredienti “classici e originali”, per il piatto più falso e ruffiano che sia mai esistito.

“…La carbonara, forse, non li avrebbe delusi. Perchè è il nostro condimento che più si avvicina al gusto statunitense. E’ composto di bacon soffritto e di uova strapazzate. Dove li trovate due cibi più genuinamente americani di questi? Naturalmente pensai di non fermarmi lì. Avrei aggiunto della panna, che gli americani ficcano ovunque e, in ultimo, un po’ di alcool, che dopo tutto oggi ha finalmente una voce a sè nei nuovi moduli americani per l’analisi del sangue.
La pasta, infine, che cos’è se non grano lavorato? E i toast americani non lo sono altrettanto? (…)
I cuochi intanto avevano tagliato a dadini quattro chili di bacon. Trecentocinquanta uova, di cui cento con solo tuorlo, erano state sbattute ed aspettavano frementi di potersi unire al bacon soffritto, per poi mescolarsi sui trenta chili di spaghetti, sui quali sarebbero stati dispersi cinque chili di parmigiano grattugiato, due chili di panna e dieci bicchierini di cognac (…)”

SPAGHETTI ALLA CARBONARA

Note tecniche:

La crema di uova e formaggio

La carbonara è un piatto solo all’apparenza semplice, che però nasconde in realtà non poche insidie a cui si dovrà porre attenzione per non portare in tavola, al posto di un bel piatto di pasta avvolto da una crema morbida e avvolgente, una sorta di pastone inframezzato da frammenti di uova strapazzate dalla consistenza per nulla allettane e dal gusto non certo gradevole.
Per questo occorrerà porre grande attenzione alla crema di uova e formaggio. Infatti, la ricetta prevede che, una volta cotta la pasta, questa venga unita alla crema di uova e formaggio. Considerato però che le uova, in particolare il tuorlo, cominciano a coagulare a circa 65 gradi, occorrerà contrastare questo spiacevole inconveniente in due modi:il primo stemperando preventivamente il composto di uova e formaggio con un paio di cucchiai di acqua calda prelevati dall’acqua della pasta che bolle, e il secondo quello di girare velocemente e con energia nel momento in cui si unisce la pasta alla crema di uova e formaggio: la pasta infatti viene scolata dall’acqua in ebollizione, cioè a 100°C, ma se mentre la uniamo alle uova mescoliamo rapidamente e vigorosamente, non daremo il tempo al calore di far rapprendere le uova, abbassando prontamente la temperatura:il processo di coagulazione, infatti, non è immediato, e con delle vigorose mescolate riusciremo a far scendere la temperatura totale di pasta e uova prima che queste ultime abbiano il tempo di coagularsi.

Le uova
Il dilemma è dietro l’angolo: solo tuorli o uova intere? Rifarsi alla ricetta “originale”, come si può capire, può essere un problema non da poco, e di conseguenza non occorre che appellarsi al buon senso: i tuorli sono più ricchi e gustosi, ma poveri di liquido. Per questo ogni tre o quattro tuorli sarà bene mettere anche un albume, per dare un po’ di morbidezza alla crema. In questo caso, il buon senso e l’occhio esperto (esperto?) del cuoco farà la differenza tra una crema compatta e rappresa – ugualmente una brodazza molle e liquida – e una sontuosa crema, liscia e morbida al punto giusto.

La pasta
Se per tradizione la “vera carbonara” richiede pasta lunga, meglio se spaghetti non troppo sottili, la realtà è che non essendoci una tradizione accertata, i formati di pasta son tutti bene accetti, anche la pasta corta, che anzi, è in grado di raccogliere, al suo interno, il sapido condimento. Personalmente io utilizzo i fusilli lunghi non bucati (quelli ripiegati ad arco della Voiello, per intenderci), da sempre, perché così la preparava mia madre, e così me la ricordo. Non mi rifaccio a nessuna tradizione, a nessun dogma: così sono abituata a mangiarla e così la preparo. Voi fate come volete, l’importante è che sia una pasta consistente in grado di reggere e supportare un condimento ricco come quello dato da uova, guanciale e pecorino. Usare dei fili d’angelo o dei capellini per una carbonara non mi sembra un buon abbinamento, ma chissà, forse si tratta solo di provare.

La ripassata in padella.
C’è chi, come la sottoscritta, prima di unire la pasta appena scolata al composto di uova e formaggio unendovi anche in guanciale con il suo grasso, la fa saltare in padella un minuto o due (dopo aver tolto parte del grasso rilasciato dal guanciale, per evitare di avere un piatto troppo unto; se invece ve ne fregate della linea e del colesterolo,e anzi, se godete intimamente al gusto del grasso fuso, allora lasciato pure tutto); anche in questo caso, non dimenticate di mescolare vigorosamente.

La mescolata finale.
Ok, avete scolato la pasta, oppure l’avete fatta anche saltare in padella con il guanciale, e ora vi apprestate a rovesciarla nella terrina con le uova sbattute e il formaggio, mescolando, come abbiamo detto, velocemente e vigorosamente. Se vedete che però il tutto è un po’ legato, non esitate ad aggiungere un paio di cucchiai di acqua calda di cottura della pasta, che avrete prudentemente tenuto da parte, sino a quando la crema non ha raggiunto il grado di scioglievolezza desiderato. A questo punto completate con un’altra grattata di pecorino fresco,un altro giro di pepe nero macinato al momento e gustate tranquillamente, con buona pace di carbonai, soldati americani e storielle varie.

E ora, la ricetta, rigorosamente non autentica.

SPAGHETTI ALLA CARBONARA

Ingredienti per 4 persone:

350 gr. spaghetti non troppo piccoli- benissimo i n. 5, ma anche fusilli, trenette o anche pasta corta.
150 gr di guanciale a dadini (circa 1 cm di lato) – io, pancetta.
4 tuorli e 1 uovo intero (tuorlo e albume)
100 gr di pecorino romano grattugiato
50 gr di grana grattugiato
pepe e sale qb
olio di oliva extra vergine di oliva

Esecuzione:
In una padella fate dorare il guanciale per qualche minuto in un filo di olio a fuoco medio, girando spesso: poi, spegnete il fuoco e tenete da parte.
Nel frattempo, in un’ampia ciotola che possa contenere anche la pasta, sbattete solo leggermente le uova con un pizzico di sale (poco, in quanto già il pecorino è salato), il pecorino e il parmigiano grattugiati e un giro di pepe nero macinato al momento. Tenete da parte.
Mettete a bollire abbondante acqua con del sale e al momento della bollitura buttate gli spaghetti (o l’altra pasta prescelta). Scolateli al dente, tenendo da parte un mestolo di acqua di cottura. Mantecate subito con un paio di cucchiai di acqua calda il composto di uova e formaggio nella ciotola, girando velocemente per non far rapprendere le uova. Il calore aiuterà non solo a rendere il composto più liscio ma andrà anche a pastorizzare leggermente le uova.
Un paio di minuti prima di scolare la pasta, riprendete la padella dove avevate messo a dorare il guanciale, togliete qualche cucchiaiata di grasso, se vi sembra che ne abbia rilasciato troppo, e fate scaldare. Dopo aver scolato la pasta, mettetela subito nella padella calda, e ripassatela per un paio di minuti assieme al guanciale.
A questo punto, rovesciate la pasta ripassata in padella nella ciotola con le uova e il formaggio, girando velocemente ed energicamente per non fare coagulare le uova (ricordate che le uova cominciano a coagulare a 65°C). In questa fase dovrete fare attenzione a creare una “cremina” liscia e morbida e fare in modo che l’uovo non si coaguli per il calore, per questo motivo occorrerà girare velocemente e con energia. Se serve, aggiungete uno o due cucchiai di acqua di cottura che avevate tenuto da parte.
Terminate, se vi piace, con un altro giro di pepe fresco macinato al momento e servite calda.

CRISTIANO RONALDO APRIRA’ UNA PASTICCERIA PORTOGHESE A TORINO

Arriva a Torino la pasticceria di Cristiano Ronaldo.
L’asso del calcio pare che abbia intenzione, come riportato dal Corriere della Sera, di aprire una pasticceria nel capoluogo piemontese per far felice la sua compagna Georgina, e pare che voglia situarla nel cuore di Torino, nel centro storico: Via Gramsci, forse, oppure piazza San Carlo, ma ad ogni modo in una posizione centrale e ricca di storia.
Ovviamente, nella pasticceria dovrebbero essere presenti i più noti dolci portoghesi, come i famosi pasteis de nata, squisiti dolcetti di pasta sfoglia ripieni di crema pasticciera, e altre specialità tipiche. La notizia della prossima pasticceria di Ronaldo arriva a poco tempo di distanza da quella della prossima apertura di un altro big, non del calcio ma della pasticceria, cioè Iginio Massari, che a breve aprirà una sua boutique dolce anche sotto la Mole. Notizie più che allettanti per tutti i torinesi, che vedranno la loro città arricchirsi di due prestigiosi locali dove poter gustare dolci davvero …di serie A!

Crediti: Mole 24, Corriere

IN RICORDO DI MARGHERITA SIMILI: LE PIZZETTE SEMIDOLCI

Sapete qual è la ricetta più cliccata in assoluto del mio blog di ricette (Al Caffè de la Paix) , con quasi 100.000 (centomila, sì) visualizzazioni?
Sarete forse sorpresi di sapere che non sono dolci sofisticati e alla moda a base di creme, panne, glasse a specchio e arzigogoli vari, e non sono nemmeno dei classici della cucina nazionale come carbonara, amatriciana, parmigiana o altri pesi massimi della nostra cucina tradizionale.

Sono invece delle ordinarie, semplici pizzette semidolci, fatte con un normalissimo impasto di farina e acqua, senza tante storie, senza farine macinate a pietra, s grani antichi, lunghe maturazioni, starter, licoli e altre nozioni cui siamo ormai tutti abituati e che tutti ormai siamo fieri di padroneggiare (padroneggiare?? Hai detto “padroneggiare”??)manco fossimo Rita Levi Montalcini alle prese con il genoma dei grani antichi. No, queste sono proprio semplici pizzette semidolci.
Ma sono una ricetta della Sorelle Simili.
Valeria e Margherita Simili.
E scusate se il termine “sorelle” lo scrivo con la “esse” maiuscola, ma ormai il loro nome, Sorelle Simili, è diventato un tale marchio, un tale certificato di eccellenza e serietà da meritarsi a pieno titolo questo semplice riconoscimento.

Una vita, quella delle Sorelle Simili, spesa per il lavoro, per il forno di famiglia, prima in Via San Felice, a Bologna, e poi, dal 1979 in Via Frassinago, per la loro bottega “Pane e roba dolce”. Una vita trascorsa tra pane, farine, focacce, ma anche tra libri, corsi, eventi, tutto sempre per portare un po’ più di pane nelle nostre case, in modo semplice, onesto, senza schiamazzi o clamori, ma con la serietà e la pacatezza di chi è consapevole di svolgere con coscienza il proprio mestiere.

Un mestiere imparato fin da piccole, a soli dieci anni, quando, invece di andare a giocare con gli altri bambini, le due sorelle dovevano alzarsi la mattina alle quattro per aiutare il padre nel forno di famiglia; un mestiere nato forse per obbligo, ma che in seguito è stato scelto con passione giorno per giorno, consapevolmente, amato e portato avanti con entusiasmo, dedizione, e anche umiltà.

Quela stessa umiltà e pacatezza che, quando nel 2015 furono insignite della più alta onoreficenza della città di Bologna, la Turrita d’argento, si rivelava nelle parole riportate dai giornalisti che le intervistavano: «Troppa roba. In fondo, abbiamo solo fatto del pane e della pasta». Qusto era questo il modo in cui le due sorelle parlavano di se stesse e del loro lavoro, pur arrivando ai più alti riconoscimenti della loro città.
Ma in questi giorni, purtroppo, quel marchio di fabbrica si è sciolto. Quel legame indissolubile che univa queste due sorelle che con la loro semplicità e la loro dedizione hanno insegnato a fare il pane a schiere di fornai casalinghi con i loro libri e il loro corsi, si è spezzato: è mancata Margherita Simili.
Guardando oggi le loro foto in rete, sempre felici, sorridenti, circondate da sbuffi di farina, mattarelli e forme di pane, devo ammettere che faccio fatica – io che non le avevo mai conosciute di persona ma solo telefonicamente – a capire chi sia Valeria e chi sia Margherita.
Ma in fondo poco importa. Per tutti noi, che abbiamo imparato grazie ai loro libri e ai loro insegnamenti a impastare pane e focacce, sono e rimarranno per sempre le Sorelle Simili. Quelle due sorridenti signore che senza clamore e senza schiamazzi ci hanno regalato la gioia di farci il pane in casa.

E queste sono le loro pizzette.

PIZZETTE delle sorelle Simili
(da” Pane roba dolce” delle sorelle Simili)

INGREDIENTI
500 gr farina 00
250 gr acqua
25 gr lievito di birra
40 gr burro (morbido)
1 cucchiaio di zucchero
1 cucchiaio di olio
1 cucchiaino di sale
polpa di pomodoro scolata e tritata
mozzarella tritata
olio
origano

ESECUZIONE
Fate la fontana, mettete al centro il lievito spezzettato e diluitelo con l’acqua, raccogliete un po’ di farina, poi unite il sale, l’olio, il burro e lo zucchero. Amalgamate bene il tutto prendendo la rimanente farina, ma non lavorate troppo a lungo. Fate una palla, copritela a campana e fatela lievitare 40-50 minuti.
Senza lavorarla, tirata una sfoglia di circa 3 mm di spessore, con uno stampo per biscotti ricavate dei dischi di circa 5 cm di diametro e disporli sulla teglia del forno un poco distanziati. Ammassare i ritagli, tagliarli e disporre anche questi sulla teglia. Con la punta delle dita, premere il centro di ogni dischetto formando un ampio incavo in cui metterete un bel cucchiaino di polpa di pomodoro e un pizzico di sale. Mettete in forno a 200° per circa 5 minuti. Toglietele dal forno, disponete sul pomodoro un mucchietto di mozzarella tritata (anche al robot) e scolata, un pizzico di origano e un goccio di olio. Rimettete in forno per altri 4-5 minuti. Si possono anche fare quadrate, eliminando così anche lo scomodo dei ritagli.

 

TORTA MIMOSA

Ci sono tre cose che detesto cordialmente in pasticceria: il pan di Spagna, la crema pasticciera e la pasta choux. Il pan di Spagna perchè comunque lo fai, si porta dietro quel non so che di segatura che ti impantana la bocca e ti si strozza in gola, la pasta choux perchè anche quella, comunque la fai, si porta dietro quel fastidiosissino retrogusto di uovo, e la crema pasticciera per lo stesso motivo.
Bene, oggi ho fatto un dolce che racchiude in sé ben due di queste preparazioni, ovvero pan di Spagna e crema pasticciera: la torta Mimosa. E se ci aggiungete che oltretutto la torta Mimosa è abbinata a una delle “feste” che più mi fa venire l’orticaria, ossia la festa della donna, forse vi starete chiedendo in quale strano stato di contorcimento mentale siano i miei pochi neuroni.
Ebbene, in realtà la cosa ha un senso: andata a una festa di compleanno di un’amica, a un certo momento arriva la solita vicina con un fac-simile di torta Mimosa; dire fac.simile è in realtà un gentile eufemismo, in quanto alla disgraziata forma di quel povero dolce: infatti, la poveretta aveva pensato bene di risparmiarsi la fase di cospargere la torta con dadini di pan di Spagna regolari per farla sembrare a un grosso mazzo di mimosa, optando per un più veloce e pratico cospargimento di briociolame e avanzi di pan di Spagna vari buttati in modo espressionistico sulla superficie della torta, alla quale davano un chè di squinternato, raffazzonato e per nulla invitante. Ad ogni modo, per quanto tristerrima a vedersi, era comunque il solito pan di Spagna farcito con la solita crema pasticciera. La torta Mimosa, in altre parole. Ovviamente non ho potuto esimermi dall’assaggiare con finto entusiasmo tale capolavoro, ma devo ammettere che la mia sorpresa è stata grandissima quando ho dovuto constatare  che la massa informe in questione  non solo non era affatto cattiva, a dispetto dell’aspetto, ma anzi, era addirittura buona! Molto buona, devo dire. E sopratutto lo strato di panna sopra quello di crema pasticciera (l’autrice dell’opera non aveva infatti preparato la classima crema diplomatica, mischiando cioè assieme crema pasticciera e panna montata, ma fatto due strati distinti e separati) aveva una consistenza e un gusto strani, diverso dal solito. Ho scoperto che era stata infatti usata non la solita panna da latte vaccino, bensì la panna vegetale, la Hoplà, tanto per non fare nomi che, indipendentemente da questioni salutistiche o altro, mi ha gradevolmente sorpresa. Insomma, per un motivo per l’altro la triste Mimosa era proprio buona, e mi sono messa in testa di replicarla al più presto.
E infatti così ho fatto. Mi sono procurata per prima cosa un po’ di colorante alimentare giallo (ok, ok, ho barato) e poi mi sono messa di buzzo buono.
Per prima cosa ho cercato delle ricette di cui potessi fidarmi, e ho quindi fatto un mix delle versioni di Montersino e di De Riso. Da Montersino ho preso il pan di Spagna arricchito, con più tuorli e burro, così ricco da sembarare più una quattro quarti che un pan di Spagna, ma ho tralasciato l’aggiunta di ananas, che non mi ha mai entusiasmato e che secondo me va ad addolcire ed appittire troppo un dolce già aabbastnza dolce e piatto di suo. Invece, ho preso da Salvatore De riso l’idea del limone e limoncello, per dare un po’ di sprint in più a questo dolce così semplice.
Per non dover fare tutto e affannarmi in un giorno solo, mi sono anche divisa il lavoro in due giornate: il pan di Spagna è meglio farlo il giorno prima, di modo che dopo una notte di riposo possiate tagliarlo con facilità –  ma si può fare diversi giorni prima e congelarlo, rendendolo anche poi più facile da tagliare, come ci insegnano i pasticcieri professionisti, Montersino in testa -,  e così  ho fatto anche per la crema pasticciera, ovviamente poi  m messa in frigo ben coperta con la sua pellicola.

Per il giorno successivo mi è rimasto quindi solo da montare la panna, assemblare la crema  diplomatica, comporre il dolce e fare i dadini di pan di Spagna. E credetemi, non è poco, soprattutto se non avete la manualità di Montersino e compagni, e i dadini di “mimosa” vi volano dappertutto e la crema cola dappertutto, dai bordi del dolce, prima che riuscite ad appiccicarli decentemente. Alla fine, comunque, ce l’ho fatta: sul pavimento c’era più “mimosa” e crema che sulla torta, ma sono comunque arrivata alla fine. E ho terminato la mia mimosa.

E questa è la ricetta.

Note tecniche: il pan di Spagna si può preparare con largo anticipo, anche un mese, e congelare. Al momento di utilizzarlo, tagliatelo da congelato, per avere un taglio più netto e regolare.

Per la crema pasticciera ho usato il metodo classico, ma potete utilizzare benissimo il metodo utilizzato da Luca Montersino,  che prevede di montare tuorli, zucchero e amidi – e non solo mescolarli bene come per il metodo classico – e poi versarli sul latte e panna quasi bollenti, fino a che non si formano dal basso delle specie di sbuffi. A quel putno, girate energicamente per circa 30 secondi et voilà, la crema è fatta.  Inoltre, potrete utilizzare anche il metodo, semplicissimo, del forno a microonde: mescolate senza  montare tutti gli ingredienti a freddo, latte e panna compresi, poi mettete nel forno a microonde alla max potenza per circa due minuti (per circa mezzo chilo di crema), aprendo però il forno e mescolando ogni 30 secondi circa (in effetti è questo l’unico inconveniente di questo metodo), o comuqnue fino ad addensamento (ricordate che nel microonde il tempo di cottura aumenta con l’umentare delle quantità, e quindi a quantitativi più grandi corripsondono maggiori tempi di cottura).

La bagna al limoncello: la Mimosa è un dolce di gusto abbastanza anonimo. Profumate la crema pasticciera con le scorze di limone, oltre che con la vaniglia: questo non solo toglierà regalerà una nota di gusto al dolce, ma toglierà anche alla crema il fastidioso retrogusto di uovo.

Nella crema diplamatica, la ricetta prevede, come quella di Montersino, un po’ di gelatina alimentare, o colla di pesce, nella misura dello 0,5% sul totale della crema (pasticciera più chantilly), come nella ricetta di Montersino. Questo darà una migliore compatezza e una maggiore consistenza al taglio, ma se non siete amanti della gelatina potete senza problemi ometterla: la crema sarà meno sostenuta e meno precisa la fetta, ma otterrete comunque un buon risultato.

Il limone e il limoncello: davvero, non tralasciateli. Continuerò a ripeterlo ma davvero, a dispetto dell’apparenza scenografica, la mimosa è un dolce semplice, dal gusto anonimo, quasi piatto. IL limone e il limoncello le danno quella marcia in più di cui tanto ha bisogno. E se non volete usare il limoncello nella bagna, fate una semplice bagna con il succo di limone, 100 ml di acqua e 100 gr di zucchero, facendo sciogliere in un pentolino in cui avrete messo anche delle scorze di limone (è qui che è contenuto l’olio essenziale).

E non ve ne pentirete.

TORTA MIMOSA AL LIMONE

Per il pan di Spagna arricchito (dalla ricetta della torta mimosa di Luca Montersino – ingredienti per uno stampo rotondo da 28-30 cm di diametro, o uno rettangolare da 20 x 30 oppure per due teglie rotonde da 18-20):

260 gr di uova a pasta gialla
65 gr di tuorli
220 gr di zucchero semolato
150 gr di farina 00 (180 W)
65 gr di fecola di patate
45 gr di burro
la polpa di mezza bacca di vaniglia (oppure un cucchiaino di estratto natuale)
scorza grattugiata di mezzo limone
facoltativo: colorante alimentare giallo (io un cucchiaio circa)

Per la crema diplomatica:
400 gr di crema pasticcera
400 gr di panna fresca semmontata con 80 gr di zucchero
4 gr di gelatina in fogli

Per la crema pasticciera:
300 gr di latte
70 gr di panna fresca
100 gr di tuorli
100 gr di zucchero
11 gr di amido di riso
11 gr di amido di mais (se non si ha amido di riso, 22 gr di amido di mais) polpa di mezza bacca di vaniglia (oppure un cucchiaino di estratto naturale)                                                                                                                                           La scorza a pezzi di mezzo limone (solo la parte gialla, senza quella bianca, l’albedo)

Per la bagna:
100 gr di zucchero
100 gr di acqua
100 ml limoncello

ESECUZIONE:

per il pan di Spagna arricchito:
Tirare fuori le uova dal frigo un paio d’ore prima di utilizzarle, oppure scaldarle a 45 °C (utilizzate un termometro da cucina, facendo attenzione a non superare i 45°C). Scaldandole, le uova monteranno meglio e più velocemente.
Nella ciotola di una planetaria mettere le uova e lo zucchero, poi cominciare a montare fino a quando il composto “scrive”, e diventa bianco e spumoso (circa 15 minuti). Aggiungete anche la vaniglia e le scorze di limone. Fate fondere il burro, poi prendete una piccola parte della massa montata, circa mezza tazza, e incorporatevi il burro fuso diventato nel frattempo tiepido. A mano, con una spagola, unite poi in tre volte la farina e la fecola precedentemente setacciate, delicatamente, girando dal basso verso l’alto per non smontare il composto. Prendete una parte del composto, circa mezza tazza, e incorporatevi il burro fuso ma non caldo, poi unite il tutto al resto dell’impasto, delicatamente.
Imburrate e infarinate le due tortiere e scaldate il forno a 190°C, statico. Colate il composto nei due stampi, fino a 2/3 circa di altezza dal bordo, poi infornate a fate cuocere per 20-22 minuti, senza mai aprire il forno

Per la crema pasticciera (metodo classico):
Fate scaldare il latte, la panna e le scorze di limone in un pentolino. Intanto, in una terrina, mescolate molto bene i tuorli con lo zucchero, poi unite anche gli amidi e la vaniglia. Stemperate con una piccola parte del latte caldo, poi unire nella terrina il resto della panna e latte caldi, dopo aver tolto le scorze di limone. Rimettere tutto nel pentolino e cuocete fino a che la crema non si addensa, ovvero arriva a 82° C (in pratica, dopo pochi secondi che vedrete la crema addensarsi, saranno raggiunti gli 82°C; per essere sicuri potrete utilizzare un termometro da cucina). Versate in una pirofila, preferibilmente in uno strato sottile, coprite con pellicola a contatto e fate intiepidire prima a temperatura ambiente e poi in frigorifero. Nel frattempo montate la panna con lo zucchero. Riprendete la crema pasticciera dal frigo, lavoratela con una frusta o un cucchiaio per renderla di nuovo morbida scaldatene una piccola parte e unitevi la gelatina in polvere o in fogli (in quest’ultimo caso dopo averla reidratata), poi unirvi la panna montata , in tre volte, mescolando dall’alto verso il basso. Tenetene da parte una tazza abbondante di crema o quanto basta per ricoprire poi la torta.

Montaggio del dolce:
Prendete i due pan di Spagna e levate loro “la pelle” più scuro in superficie e sul fondo. Tagliateli quindi a fettine spesse non più di un centimetro e disponetene quanto basta in uno stampo da zuccotto precedentemente foderato all’interno con della pellicola. Arrivate a circa 2- 3 cm dal bordo. Bagnate il pan di Spagna con la bagna poi fate uno strato di crema. A metà altezza circa disponete altre fette di pan di Spagna, imbevetele con lo sciroppo e colate la rimanente crema. Infine, coprite con altre fette di pan di Spagna, bagnate anch’esso e premete bene. Coprite con della pellicola e mettete nel congelatore.
Nel frattempo,con il pan di Spagna rimasto, fate dei dadini che simulino i fiori di mimosa, di circa mezzo centimetro di lato. Attenzione perché ce ne andranno molti per ricoprire tutta la torta, circa quelli ricavati da 7/8 fette.
Dopo un’oretta, riprendete il dolce dal congelatore e capovolgetelo su una base piana (io il fondo di uno amovibile per crostata), uguale o di poco superiore al diametro del dolce (per lavorare meglio). Il dolce si sformerà facilmente, avendo messo la pellicola a ricoprire lo stampo. Mettete la crema rimasta sulla sommità poi spalmatela con una spatola su tutto il dolce. A questo punto, sollevate con una mano il dolce, con la sua base, e con l’altra prendete i dadini di pan di Spagna e fateli aderire al dolce, cominciando dai lati. Premete leggerente, poi, con l’aiuto di una spatola sottile, mettete il dolce su un piatto da portata. Sempre con la spatola, pulita, compattate i bordi del dolce. Coprite con pellicola e mettete in frigo preferibilmente la sera prima, per dare alla gelatina il tempo di far solidificare il dolce (almeno 4 ore).
Decorate a piacere, con ribes, fragole o foglie, e servite freddo.